Un codice QR sulle etichette dei vestiti può fermare il greenwashing?!
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Attualmente viviamo una fase di cambiamento nell’industria della moda, su diversi fronti. Mentre la digitalizzazione della nostra società spinge i marchi a modernizzare il loro posizionamento, in particolare con la creazione e la vendita di NFT, la sfida principale rimane quella di restituire fiducia agli acquirenti, sempre più diffidenti a causa dei numerosi scandali legati all’industria. In un’era in cui le coscienze si risvegliano sui problemi ambientali e sociali, ed è fondamentale rivedere il proprio consumo di moda, si avverte un bisogno di trasparenza e onestà da parte dei marchi.
Per avviare il processo, l’apposizione di un codice QR sulle etichette dei vestiti, che offre maggiore tracciabilità, è stata resa obbligatoria per i grandi marchi a partire da gennaio 2023. Ma allora, è davvero la soluzione per limitare il greenwashing? Possiamo fidarci? Il consumatore è abbastanza informato? Analisi.
Perché la trasparenza è essenziale per i marchi?
Sebbene il modello della fast fashion continui a prosperare e trovi ancora pubblico, notiamo però una crescente volontà da parte dei consumatori di affrontare la moda da un’altra prospettiva. Vale a dire, una visione più giusta e responsabile, in linea con le sfide che affrontiamo, sia nel settore della moda che a livello globale.
Ciò è spiegato dal risveglio delle coscienze che osserviamo da diversi anni, incoraggiato dai numerosi reportage, articoli, testimonianze e foto che evidenziano lo stato allarmante dell’industria tessile. Presente tra le industrie più inquinanti, la produzione delle sue materie prime, i prodotti tossici utilizzati per la loro trasformazione e i chilometri percorsi nei vari angoli del mondo hanno un impatto devastante sul pianeta. Ma non solo.
Le rivelazioni sui retroscena di quest’industria hanno sollevato il velo sulle condizioni di lavoro nei sweatshop, così come sul lavoro degli Ouiguri. Svelando le conseguenze drammatiche sulla salute morale e fisica dei lavoratori, e persino mortali, come nel caso del crollo del Rana Plaza (Bangladesh) nel 2013.
Queste rivelazioni hanno suonato l’allerta e aperto gli occhi sulla realtà che si cela dietro a molti marchi. Una presa di coscienza per i consumatori, che hanno, in risposta, modificato il loro modo di consumare, sia nella frequenza degli acquisti che nella scelta dei marchi a cui si rivolgono.
Come si adattano i marchi al risveglio delle coscienze?
Di fronte alla perdita di fiducia dei loro clienti, che preferiscono orientarsi verso modalità di consumo più responsabili e circolari, anche i marchi hanno avviato dei cambiamenti. Se per alcuni questo nuovo asse di creazione sostiene i loro valori, la maggior parte si adegua per poter continuare a raggiungere la propria clientela e attrarre nuovi acquirenti, tutti ora più attenti.
Gli acquirenti ora privilegiano un consumo più consapevole, favorendo marchi trasparenti, locali, eco-responsabili ed etici. Inoltre, vediamo un interesse crescente per il second hand e l’upcycling, che si inseriscono nella volontà di consumare meno e di cercare di prolungare la durata dei capi.
È così che osserviamo marchi, alcuni dei quali inseriti nel modello della fast fashion, ripensare il loro posizionamento e il loro asse produttivo per inserirsi in questa nuova visione. Come H&M che punta su un economia circolare, al fine di limitare il suo impatto sul pianeta e di allinearsi alle nuove aspettative, promuovendo nei prossimi anni capi responsabili, accesso al noleggio e soluzioni di riciclo e riparazione, oltre a promuovere il second hand tramite Sellpy.
I servizi di riparazione si stanno espandendo anche all’interno di altri gruppi e marchi, come Net-à-porter, Selfridge, Harrods o Beyond Retro, per citarne solo alcuni. Osserviamo anche operazioni di credito per il reso in negozio di capi usati, per gestire meglio la loro seconda vita.
Come riconquistare la fiducia con un codice QR sulle etichette dei vestiti?
In continuità con queste nuove pratiche, la legge AGEC ha appena dato una nuova svolta alla trasparenza dei marchi. Da gennaio 2023, i marchi con un fatturato annuo superiore a 50 milioni di euro devono apporre un codice QR sulle etichette dei vestiti, per indicare il loro impatto ambientale. Questa obbligo si estenderà negli anni ad altri marchi.
Dopo aver vietato lo scorso anno la distruzione delle invendute, la legge si occupa ora della trasparenza dei marchi. Allo stesso modo del nutriscore e dell’indice di riparabilità, le informazioni accessibili tramite il codice QR sulle etichette dei vestiti sono destinate a informare l’acquirente sul suo acquisto, e soprattutto, a tentare di riconquistare la sua fiducia fornendo dati sulla progettazione di un capo.
Non è più possibile per un marchio darsi una bella immagine, descrivendo un capo come biodegradabile. Ora, con questo codice QR sulle etichette dei vestiti, i marchi devono essere trasparenti riguardo al percentuale di materiali riciclati nel capo. Inoltre, a seconda delle informazioni fornite dal marchio, il cliente potrà conoscere anche l’origine delle materie prime, i luoghi di produzione, o ancora il numero di km percorsi dalla raccolta delle fibre fino al negozio. Questo per conoscere l’impronta di carbonio di un capo, e poter acquistare in modo più consapevole.
Queste etichette servono sia per il primo acquisto che per una rivendita nel second hand, per supportare questa trasmissione.
Perché la trasparenza nella produzione di un capo ha dei limiti?
Dove sorge una domanda sulla pertinenza di questo codice QR sulle etichette dei vestiti è l’affidabilità dei dati, così come la loro quantità.
Sebbene queste etichette siano uno strumento ideale per illuminare il consumatore sui retroscena di un capo, così come per ripristinare una verità e una relazione di fiducia, i marchi non sono obbligati a registrare tutte le caratteristiche legate alla sua progettazione. Ciò nuance l’efficacia di questo approccio, che non è quindi abbastanza spinta per inserirsi in un reale processo di trasparenza.
Un marchio può benissimo mettere in evidenza il fatto che il suo capo sia realizzato per oltre l’80% con materiali riciclabili, tra cui lino coltivato in Francia, nascondendo nel contempo le condizioni di lavoro delle persone che lo producono, che possono essere deplorevoli. E così si può dare una bella immagine, nascondendo ciò che il consumatore evita.
Inoltre, essendo consapevoli che i marchi spesso esternalizzano a fabbriche, che a loro volta esternalizzano ad altre fabbriche, la questione dell’affidabilità dei dati sulle etichette si pone. Le informazioni trasmesse lungo il processo di creazione del capo, che costituiscono la blockchain, sono validate da una persona dedicata a ciascuna fase di creazione. La sua onestà è l’unico parametro che garantisce l’accuratezza dei dati. Tuttavia, esperti o organismi possono essere chiamati per controllare i dati e per studiare il ciclo di vita dei capi, per conoscere il loro impatto ambientale.
I marchi possono anche rivolgersi a società come Fairly Made o Good Fabric, per garantire il controllo dei loro dati, o per essere accompagnati nella loro transizione.
Il codice QR sulle etichette dei vestiti è adatto ai clienti?
Certo, affinché una reale transizione avvenga, è necessario che il consumatore sia informato e istruito, sia sull’uso di questo codice QR sulle etichette dei vestiti, sia sulla sua comprensione.
A tal fine, numerosi account sui social media, libri, podcast e altri media si stanno sviluppando per trasmettere informazioni per consumare consapevolmente. Tuttavia, la maggior parte dei consumatori rimane poco informata, e questo codice QR sulle etichette dei vestiti non è facilmente accessibile, oltre ad essere spesso succinto. Inoltre, diversi livelli di lettura devono essere presi in considerazione nell’analisi di un capo, in particolare per includere tutto il panorama ambientale, ma anche l’etica e le condizioni di produzione.
È così che alcune iniziative vanno oltre il semplice codice QR sulle etichette dei vestiti, accompagnando sia i consumatori che i marchi, al fine di stabilire una vera trasparenza sui loro capi, e questo, in modo comprensibile per tutti. Clear Fashion fa parte di questi attori del cambiamento, proponendo un’app che raccoglie oltre 500 marchi, analizzati in base al loro impatto sull’ambiente, sull’essere umano, sulla salute e sugli animali. Queste analisi permettono di avere una tracciabilità e di conoscere l’impatto dei materiali. I clienti hanno accesso a dati completi e verificati, e possono così essere certi dell’autenticità del marchio. E questi ultimi possono essere supportati nella loro comunicazione.
Sebbene il codice QR sulle etichette dei vestiti abbia come obiettivo di stabilire una trasparenza sui marchi, riteniamo che ciò sia ancora troppo leggero, e che ci sia ancora troppo spazio per zone d’ombra. Dovrebbe essere reso obbligatorio il condivisione di ulteriori dati, doppiamente verificati, sia sull’impatto ambientale che sulle condizioni di lavoro, che qui sono totalmente omesse dalle informazioni obbligatorie. Questa iniziativa ci mostra che la strada è ancora lunga, ma informiamoci, per creare un impatto, anche solo a nostra scala.